domenica 7 giugno 2020

Il Castello di Shirley Jackson

"Un uomo che sa rendersi felice con una semplice illusione è infinitamente più astuto di uno che si dispera con la realtà" , dice Alphonse Allais, forse dando una sintesi più che perfetta di un romanzo che fu pubblicato molti anni dopo. Parliamo di Abbiamo sempre vissuto nel castello, della grandissima Shirley Jackson, questa volta narratrice di una storia che ha come protagoniste le sorelle Blackwood, Mary Katherine (chiamata Merricat) e Constantine, uniche abitanti, insieme con lo zio Julian e il gatto Jonas, della grande villa di famiglia, dopo la morte per avvelenamento di genitori e parenti. Sono passati sei anni da quella delittuosa cena. Constantine, inizialmente accusata, è stata scagionata, ma la gente del paese, villana e ottusa, ha relegato le due sorelle ai margini della società, considerandole appestate e assassine. La tranquillità di casa Blackwood viene intaccata dall'arrivo del cugino Charles, che cerca in tutti i modi di distruggere l'equilibrio, puramente illusorio, che Merricat e Constance si sono create nel corso degli anni. E questa tranquillità viene perfettamente narrata dall'autrice, la quale riesce nell'intento di dipingere tre personaggi profondamente colpiti da una tragedia familiare, di cui, a distanza di anni, portano ancora i segni, tanto da rendere la loro psiche complessa come la grande villa che le ospitano. Constance è per la giovanissima Merricat l'unico punto di riferimento: la sua presenza alla cucina, intenta a preparare una colazione abbondante o lavare gli utensili, costituisce per la ragazzina un'àncora di salvezza, che le permette di non prendere davvero il volo per quella luna su cui spera di andare un giorno. Merricat, però, sa in cuor suo che la villa in cui vive, di cui pulisce minuziosamente ogni angolo, e la sorella sono in realtà il porto sicuro, il castello, in cui la sua giovane mente si rifugia e che cercherà di proteggere ad ogni costo quando il fantasma, nelle vesti di Charles, arriva a Blackwood per mettere a soqquadro le loro vite. La Jackson, la cui scrittura è tremendamente brillante quanto evocativa, fa sì che il lettore empatizzi con la protagonista, tanto da sentire nella sua mente i mattoni che pian piano si assemblano per costruire la casa. E, allo stesso tempo, ha la capacità di far percepire tutto il decadimento progressivo della stessa, che è metafora e analogia della lenta e inaspettata distruzione della vita delle due giovani sorelle. Ancora una volta, i personaggi di Shirley Jackson risultano affascinanti, complessi, studiati nel minimo dettaglio, e la sua narrazione non un semplice susseguirsi di parole, ma un labirinto di azioni e pensieri, a riprova, probabilmente, dello stesso disagio esistenziale che l'autrice ha vissuto, colpevole di aver riempito di tristezza la sua vita. Salta all'occhio, quasi come un filo conduttore, l'indebolimento di villa Blackwood, che inizia ad assumere vita propria, esattamente come di vita propria gode la famosa Hill House, protagonista di un altro romanzo, estremamente psicologico, della stessa autrice. Ma il lento deterioramento di una casa non si limita a questo, va oltre, ed evoca il disfacimento della nostra mente di fronte ad eventi traumatizzanti. Ed ecco la magistrale capacità che deve essere riconosciuta alla Jackson: l'analisi dell'esistenza umana attraverso il piacere della narrazione.

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